Popoli nativi alla COP20: il “buen vivir” come nuovo paradigma di sviluppo Stampa

20141212_cop20-indigeniMonito dei movimenti ambientalisti ai leader riuniti a Lima: restano solo 1.800 gigaton di CO2

Una cerimonia rituale attorno a un “caracol”, realizzato con frutti della terra e pannocchie di mais. In occasione della “Cumbre de los Pueblos”, l’incontro parallelo alla Conferenza delle Parti promosso dai movimenti sociali, la leader indigena ecuadoriana Blanca Chancoso cammina tra i dirigenti dei movimenti sociali con una coppa nella quale arde legna profumata. È per dar loro il benvenuto, mentre intorno si organizza un picchetto spontaneo di contadini che poi marceranno nel grande parco delle esposizioni per protestare contro la mega-diga di Conga. Spunta anche una bandiera No-Tav. Il fulcro della Cumbre è al centro di Lima, al Parque de las Exposiciones, costituito da un anello di tela verde intorno al quale sono stati costruiti stand dei movimenti sociali che testimoniano la resistenza e la tutela della terra e della biodiversità. Più in là grandi tende verdi pistacchio. L’entrata, accanto al Museo Metropolitano di Lima, sede di una esposizione su arte, estetica e sostenibilità è presidiata da poliziotti in tenuta anti sommossa.

Incontro Rosa Guillen della “Marcha Mundial de las Mujeres” e responsabile internazionale della Cumbre, conosciuta sei anni fa quando assieme organizzammo una sessione del Tribunale Permanente dei Popoli per giudicare le imprese europee in America Latina. «Dobbiamo risentirci presto e con calma, Rosa - le dico -. L’Italia sta ratificando il trattato di libero commercio tra UE, Perù e Colombia».

L’odore dolce del “pau santo” è nell’aria. Passata la cerimonia, riprendono i seminari e uno in particolare richiama la mia attenzione. È un incontro sui mutamenti climatici e le economie di transizione, con due oratori di eccezione: Eduardo Gudynas, segretario esecutivo del CLAES (Centro Latino Americano di Ecologia Sociale) e Alberto Acosta, economista della FLACSO (Facoltà Latinoamericana di Scienze Sociali).

Con loro si è parlato di come poter arrivare gradualmente alla costruzione di un’alternativa fondata sul “buen vivir”, sganciandosi progressivamente dalla dipendenza dall’estrazione di combustibili fossili, alla progressiva decarbonizzazione dell’economia, così necessaria per assicurare la sopravvivenza del Pianeta. Gudynas snocciola cifre: «ci troviamo come un paziente in stato grave al pronto soccorso. Dobbiamo iniziare la cura, non possiamo aspettare ancora. Al massimo possiamo ancora immettere nell’atmosfera 1.800 gigaton (miliardi di tonnellate) di anidride carbonica. Le riserve fossili conosciute ad oggi ammontano a 5 volte tanto, e se si prendono in considerazione anche le fonti non-convenzionali la cifra sale».
«Per mantenerci in vita - continua Gudynas - dobbiamo limitarci a utilizzare un terzo delle riserve conosciute. Non c’è via di scampo: o smettiamo gradualmente di pompare petrolio o è la fine. E proprio dall’America Latina può partire l'alternativa».

Come fare? Si parte dalla riduzione delle emissioni - propongono i relatori - , e si arriva alla riduzione della dipendenza dai mercati internazionali con un programma chiaro. Stop a nuove estrazioni petrolifere in zone a rischio, dove vivono popolazioni indigene e la biodiversità è a rischio. Poi sostenere un uso selettivo del petrolio, solo per scopi di trasporto collettivo, riducendo i sussidi, frenando la speculazione sui prezzi, e stimolando la mobilità sostenibile. E ancora proteggere le foreste, e ridurre la dipendenza dai fertilizzanti, attraverso l’agricoltura organica. Pensare, insomma, come sostengono gli indigeni, anche “alle prossime sette generazioni”. E prefiggerci di arrivare al “buen vivir” entro 175 anni.


12 DIC 2014

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