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La Shoah spiegata ai bambini PDF Stampa E-mail

20160126_intervista-LeviCome parlare ai più giovani dell’Olocausto? Le riflessioni di Gabriel Levi, psichiatra dell’età evolutiva

Dopo la catastrofe universale della Shoah, è possibile guardare dentro la malvagità umana? E cioè, senza fuggire dichiarandoci subito buoni? Dopo un trauma subito quasi passivamente, è possibile usare la memoria in maniera attiva? A 73 anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz, sono ancora tanti gli interrogativi a cui dare una risposta risulta sempre così complicato, anche per chi quell’esperienza l’ha vissuta in maniera diretta. Domande che secondo Gabriel Levi, psichiatra dell’età evolutiva e professore emerito dell’Università di Roma “La Sapienza”, devono restare tali e mostrarsi “tanto inquietanti quanto fiduciose”.

Incontriamo Levi nella sua casa di Roma, centinaia i volumi dedicati alla cura e alla prevenzione del disagio giovanile e un cognome che da solo racconta la storia di un popolo il cui passato e presente si fondono con quelli di tutta l’umanità. 

Professore, qual è il ruolo della memoria nella formazione ed evoluzione delle identità?

«Una persona senza memoria non è una persona. E questo vale già nei primi anni di vita del bambino, dove si forma la struttura della memoria e i ricordi che daranno il “la” e costituiranno il refrain di tutti quelli successivi. Nel discorso della Shoah, bisogna tener presente anche la memoria collettiva, che è fondante di un gruppo o di una nazione: dal confronto con gli altri ognuno di noi può ravvivarsi, riappacificarsi e diventare creativo per il futuro. Anche nel caso di esperienze differenti, è interessante notare come l’essere umano reagisca al trauma nella stessa identica maniera: da una parte cercando di riprodurlo sempre e dall’altra provando a uscirne fuori e a fare una scommessa sul futuro».

Quali libri consiglierebbe di utilizzare agli insegnanti della scuola primaria?

«È possibile creare una discussione sugli stermini partendo da esperienze su cosa sia giusto e cosa sbagliato. Per questo, consiglierei nell’ordine “I ragazzi della Via Pal”, “Il signore delle mosche” e “Se questo è un uomo”. Il primo libro racconta la “guerra” tra due bande di ragazzini per il possesso di uno spazio dove giocare. Personaggio memorabile è Nemecsek, il ragazzino più piccolo, che subisce e infine soccombe alle violenze delle due bande, attraverso cui si può comprendere la logica dei gruppi, che cercano di proiettare la loro violenza su qualcuno che è più debole degli altri. È un racconto per bambini ma allo stesso tempo una terribile “profezia” di quello che sarebbe accaduto pochi anni più tardi. “Il signore delle mosche” racconta, invece, come un gruppo di bambini, che devono gestirsi da soli, diventa progressivamente violento e crea una scissione tra chi è più violento degli altri e chi deve subire ma spera di poter rovesciare i ruoli. È un romanzo fortemente educativo per comprendere che tutti possono perdere e come ognuno di noi possa vivere esperienze come queste, dai piccoli episodi di bullismo ai grandi fatti storici. Infine, la lettura di “Se questo è un uomo”, filtrata attraverso sensibilità ed esperienze personali dei bambini, offre una chiave veramente universale».

Da che età si può cominciare a parlare di Shoah?

«Alcune cose possono essere spiegate ai bambini molto presto, già intorno ai 5-6 anni. Raccontando ad esempio che ci sono state grosse cattiverie, senza entrare nei dettagli. E poi facendo riflettere il bambino sulle ingiustizie più grandi che ha osservato intorno a sé, sui fatti cattivi che sono successi e su quelli che stanno accadendo oggi, per evitare che il bambino possa avere paura quando accende la tv e guarda il telegiornale. Un discorso critico sulla Shoah può essere affrontato, invece, nell’età dell’adolescenza ma non deve rimanere in un contesto isolato, è necessario confrontarlo con i fenomeni di gruppo e delle bande di oggi. Di certo, a tutte le età non è il dolore che va comunicato, piuttosto l’indignazione e la capacità di coinvolgimento del bambino e del ragazzo: non bisogna stare inerti di fronte alle ingiustizie ma si può ed è giusto indignarsi, ognuno per quello che può».

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Come cambierà nel tempo memoria della Shoah con la scomparsa dei testimoni dell’olocausto?

«I superstiti della Shoah tuttora viventi hanno guardato in faccia il male, allora, quando erano bambini. Hanno guardato e capito il male come i bambini guardano il dolore e l’ingiustizia: con lo stupore assoluto e con il rifiuto più totale. Se vogliamo comprendere e sgretolare il male della Shoah, forse possiamo immaginare e introiettare quegli sguardi di bambini. Quell’incredulità totale è veramente più forte del male, perché nasce dalla speranza e dalla certezza che il male non può esistere».

 Perché spesso di fronte a eventi attuali mostriamo indifferenza e viceversa eventi del passato ci emozionano di più?

«Sicuramente quello che ci fa più paura cerchiamo di tenerlo il più lontano possibile. Poi c’è il fatto che la civiltà occidentale, dall’antica Grecia in poi, è rimasta una civiltà dello spettacolo. Uno spettacolo anche mediatico, che oggi si consuma in pochi minuti, notizia dopo notizia, con un’esposizione universale che rappresenta una grande opportunità ma anche una grande difficoltà per metabolizzare poi quel che accade. È necessario quindi trovare nuovi linguaggi e capire anche il rischio del dare notizie troppo veloci o banali, che distruggono la memoria e il rapporto tra memoria individuale e collettiva».

È possibile fare un parallelismo tra le stragi naziste e quelle dei fondamentalisti islamici?

«Non credo che si possa parlare con facilità di questo discorso perché nasce in Paesi con lingue diverse, in momenti diversi e con pressioni molto diversificate. Di certo, il problema della morte eroica, dell’omaggio alla morte, non è un’invenzione solo di un certo Islam ma era il mito dominante dell’antica Grecia ed è rimasto come mito del martirio, della morte coraggiosa anche se inutile. Oggi la novità è che si mandano dei bambini a morire e ad uccidere, approfittando di un qualche indottrinamento e del fatto che la percezione del tempo nei bambini e negli adolescenti non è identica, perché è come se il futuro fosse illimitato e la morte per loro non esistesse. Allo stesso tempo, è bene sottolineare che l’Islam ha sempre chiamato il suo Dio “il misericordioso”. Non è l’unica religione a farlo ma questo va ricordato anche perché è una ricchezza che l’Islam non può perdere, una forza positiva che può riportare la vita».

Come possiamo aiutare i giovani ad accettare le differenze e a riconoscersi nell’altro?

«A scuola si può raccontare la storia dei migranti italiani, per far capire che il mondo è un mondo di migranti, e recuperare le esperienze antiche, evidenziando che in questi processi di incontro tra le culture ci sono alcuni aspetti naturalmente buoni, altri naturalmente cattivi e che le due cose si bilanciano. È un discorso ciclico e ognuno deve avere dentro di sé le due identità, di chi è accolto e di chi vuole accogliere. Bisogna considerare che il migrante viene non solo per ricevere ma anche con il suo patrimonio di cultura da dare. Se uno sente che ha qualcosa da dare, anche quando è povero, non vive nell’umiliazione. È l’umiliazione reciproca che ci uccide».

Intervista a cura di Anna Moccia - riprese e montaggio video di Simone Barretta

27 GEN 2016

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